
Sebbene Il Natale
Di Denise Furlan

Il primo a entrare è un ragazzo alto che si guarda intorno come a cercare qualcuno. Io lo osservo e gli chiedo:
“Una cioccolata calda?”
Lui mi sorride e mi risponde che la prenderà dopo. Con un accento americano mi fa capire che sta aspettando qualcuno. Nel frattempo girà tra gli scaffali di tè e caramelle artigianali con l’espressione di stupore e soddisfazione. Indossa un cappotto lungo a doppio petto. Dev’essere uno di quei turisti arrivati qui grazie alle recensioni di Google Maps ma che alla fine prenderà solo una misera confezione di cioccolatini.
Sebbene il Natale sia alle porte e la via consolare sulla quale si affaccia il mio negozio sia già addobbata di luminarie sfavillanti e sebbene il via vai dello shopping sposti interi gruppi di persone da una vetrina all’altra, io me ne sto dietro al mio bancone in attesa di un coraggioso avventore che nel 2022 si ostini ancora a bere la cioccolata calda artigianale, creata da mio nonno negli anni cinquanta ed erogata dallo stesso macchinario di allora. Soprattutto, quello che aspetto con ansia, è il cliente che acquisti ogni sorta di prodotto da me creato: torroni, presepi, renne, frutta secca o candita ricoperta di cioccolato. Ovvero il cliente che possa darmi l’illusione di avere ancora un’attività ben avviata.
Non è così, purtroppo. Non è così da diversi anni.
Guardo l’uomo che gira nel negozio e penso che alla fine dell’inverno, quando il cioccolato non sarà più lavorabile per il caldo che a Roma ormai da molti anni arriva sempre in anticipo, dovrò prendere la decisione di chiudere definitivamente e porre fine all’attività storica che la mia famiglia tramanda da tre generazioni.
La porta si apre di nuovo e il secondo avventore del pomeriggio è George. E’ un po’ che non lo vedo per questo gli chiedo:
“Dove sei stato? Stai bene?” Si limita a muovere le mani, fa sempre così. Non parla mai. Noto che rispetto alla volta precedente è vestito in modo curato e di recente deve aver fatto anche una doccia. Non è un barbone come tutti gli altri perché qualche volta si lascia aiutare sia dai servizi sociali, sia dalle persone di buona volontà. E’ originario della Polonia e molti, nel quartiere lo chiamano “il polacco”.
Viene qui da quando ero un ragazzino delle medie e già allora lo vedevo entrare in negozio, andare verso il telefono a gettoni e fare una lunga telefonata nella sua lingua piena di suoni duri e non molto articolati. Il telefono non funziona più, ovviamente. E’ un cimelio, un’attrattiva. Le telefonate immaginarie sono l’unico modo per sentire la voce di George e penso che quando chiuderò non saprà dove andare a parlare perché nel quartiere non si trovano più altri telefoni a gettone.
Anche oggi stacca la cornetta, la porta all’orecchio e inizia una conversazione tenera e concitata allo stesso tempo.
L’uomo col cappotto a doppiopetto lo osserva e accenna un sorriso, io gli faccio un gesto per dirgli di non farci caso e capisco di aver fatto male. L’uomo mi guarda serio.
“Mia madre e mio padre sono polacchi. Io capisco cosa dice.”
“Cosa dice?”
L’uomo sorride con un angolo della bocca e dopo aver ascoltato dice:
“Parla con il figlio e si raccomanda di studiare così che potrà andare a prenderlo e potranno stare insieme. Poi dice di fare il bravo con la nonna e altre cose.”
Quindi George ha un figlio? Sebbene il Natale induca alla serenità, questa notizia mi getta nello sconforto. Mi chiedo quanto tempo fa abbia smesso di chiamarlo veramente. Cerco di ricordare se già molti anni prima, quando ero ancora un ragazzino, immaginasse di parlare con qualcuno o se invece le telefonate fossero vere. Mi viene in mente di guardare nell’archivio storico del negozio che si trova nel retro e che altro non è se non una scatola piena di foto e documenti che hanno a che fare con la cioccolateria. Quando torno in sala George è ancora alla cornetta e quando riaggancia trova il cioccolato caldo che gli ho preparato ad attenderlo sul bancone.
Lo prende, lo sorseggia e se ne va.
Sebbene il Natale si senta nell’aria e, quest’anno, sia anche più sereno dei due anni precedenti, non farò una lira. E non è colpa mia se in due anni il mondo è cambiato e sembra quasi che sia lui a impormi di fermarmi. Apro la scatola e trovo gli album fotografici nei quali mio nonno e mio padre hanno attaccato istantanee e polaroid i cui colori sbiaditi e le luci poco studiate, mi catapultano indietro di molti Natali. Anche gli occhi dei miei cari sembrano rassegnati.
“Papà, nonno… non ho alternative. Io non so proprio come fare.”
La terza persona a entrare in negozio è una ragazza dalla pelle olivastra e dai capelli lunghissimi e neri come il buio. Anche lei si guarda intorno e quando i suoi occhi incontrano quelli dell’uomo col cappotto a doppiopetto la sua faccia assume un’espressione timida e felice sintetizzata in un sorriso che se avessi saputo, avrei fotografato e messo nell’album che sto sfogliando.
I due si avvicinano e cominciano a parlare in inglese. Capisco poco e niente, ma intuisco che si sono dati appuntamento qui nel mio negozio, che lui lo ha trovato subito e lei, ha dovuto girare un po’. Eppure è illuminato, l’insegna vintage troneggia su tutta la strada. Una volta che ho provato a cambiarla, è venuto giù mezzo quartiere a impedirmi di smantellare un pezzo di storia della strada.
Sebbene il Natale invogli l’acquisto del cioccolato, in bottega si vede poca gente. E a dire il vero è così da due anni. Prima il Covid, poi la guerra. Prima l’aumento delle materie prime, poi l’aumento dell’energia. Ho passato l’estate a fantasticare su una possibile ripresa e a guardarmi in giro, come dicono quelli più svegli di me. Mio cugino lavora in Amazon e dice che lo stipendio è buono, un mio collega mi ha già inviato una proposta per andare in Svezia a lavorare in una fabbrica di cioccolato, un amico pasticcere mi ha fatto capire che mi prende a bottega da lui come Maitre Chocolatier.
Sebbene il Natale sia arrivato, la ripresa non c’è stata e non mi pare di scorgerla da lontano. Probabilmente accetterò la proposta del mio amico pasticcere perché non riesco a pensare di andarmene da Roma.
Vorrei seguitare ad ascoltare cosa si dicono l’uomo e la donna che si guardano fissi negli occhi e non poggiano mai lo sguardo intorno a loro, ma la porta si apre ancora ed entra Bea saltellando per avere la sua porzione di cioccolata giornaliera. Oggi ha le trecce arrotolate che sbucano da sotto il cappello di lana. Dopo la prima sorsata si lecca le labbra, mette l’euro e cinquanta sul bancone ed esclama:
“Biscotto!”
Allora allungo la mano verso il vassoio delle frolle alla vaniglia a forma di cuore e gliene do una. Bea fa la prima media, ha sempre il sorriso stampato in faccia ed è una delle mie clienti più affezionate. La madre mi ha ordinato due presepi e mezzo chilo di torrone alla nocciola e una volta che le dissi che avrei voluto chiudere si mise a piangere.
L’uomo e la donna si siedono a un tavolino e lui mi chiama con la mano. Ordinano due cioccolate calde con panna e un bel vassoio di biscotti misti. Lei mi guarda sorridendo e dice qualcosa. Lui mi guarda a sua volta e traduce:
“Ha detto che è un posto bellissimo, questo. Gliene ha parlato un suo connazionale che ha lavorato qui qualche anno fa.”
“Chi?” chiedo io stupito.
“Amir.”
Sebbene il Natale da qualche anno a questa parte sappia essere crudele, mi scoppia il cuore dalla felicità.
“Amir? E come sta?”
Mi viene riferito che sta bene e che ha aperto una pasticceria nel suo paese. Che ha detto alla ragazza di riferirmi che a noi, cioè alla mia famiglia, ci pensa spesso e che alcune cose le fa proprio come gliele ha insegnate mio padre.
Bum.
M’avessero dato una coltellata, mi avrebbero fatto meno male. Mi si rigira lo stomaco dalla commozione, sono anche sul punto di piangere, per questo giro i tacchi e vado al bancone a preparare il vassoio.
Sebbene il Natale accresca il senso di una comunità, mi sento come una formica che da sola deve gestire un intero formicaio. E non ne ho la forza.
Torno al tavolo col vassoio e sorridendo dico alla ragazza di salutarmi Amir. Lei mi dice che lo farà senz’altro.
Tornato al bancone riprendo a sfogliare l’album e ci metto un po’ a ricordarmi perché lo avevo preso. Per puro caso trovo una foto buffa di papà e Amir in laboratorio con la faccia sporca di cioccolato e i denti bianchi di un sorriso genuino. La stacco, la metto in una busta, la chiudo e sopra ci scrivo “Per Amir.”
La porto al tavolino e il ragazzo che aveva poggiato la sua mano su quella della ragazza la ritrae furtiva.
Capisco di aver interrotto qualcosa e farfuglio delle scuse. I loro sorrisi timidi e imbarazzati sono quello che ci voleva. Allungo la busta alla ragazza.
“Per favore, dai questo ad Amir da parte mia.”
Sebbene il Natale, questo Natale, sarà l’ultimo della storica azienda di famiglia, ho voglia di pensare al futuro. Ho già contattato un’azienda per vendere i macchinari e poter mettere qualche soldo da parte. Gli scaffali forse riesco a venderli a qualche attività che arreda in stile vintage. Sono tutti pezzi d’epoca. Il mio mobile preferito è un vecchio espositore di cravatte che mio padre adattò per mettere in mostra barattoli di cioccolata e marmellate. E in basso, nella teca dove si espongono i papillon, sono raccolte le praline in tanti piccoli vassoi colorati. Mia madre progettò l’estetica del negozio e nessuno ha mai potuto modificare nulla. Né quando era viva, né dopo.
Il locale è uguale da quando è stato creato, ma io in questi due anni sono cambiato. Come tutti.
Io non posso andare avanti così.
Sebbene il Natale quest’anno sia ricco di malinconia, c’è una luce nella mia anima che mi dice che in fondo sto facendo bene. Ho provato a vendere l’azienda ma non ci sono riuscito e sono diversi anni che gli incassi a fatica superano le spese. Certi giorni per poter comprare le materie prime per realizzare i miei dolci, devo vendermi gli oggetti di valore. Non ha senso. Un altro anno così e dovrò vendermi la casa.
Sebbene il Natale mi stia crepando il cuore, sto facendo sicuramente la cosa giusta.
Continuo a cercare nella scatola ma non trovo foto di George, che strano.
La porta si apre, entra una signora che vuole fare dei regali alle amiche. Consiglio le marmellate, la signora approva e ne compera dieci. Le devo confezionare per il giorno seguente.
L’uomo col cappotto mi chiede delle marmellate e ne decanto la bontà. Parla un italiano molto preciso, malgrado l’accento.
”Di dove sei?”
“New York”.
Mi illumino. Quando chiuderò farò un viaggio negli Stati Uniti. E ovviamente una tappa sarà New York. Sebbene il Natale quest’anno mi faccia fare talvolta pensieri cupi, fantastico sempre sui viaggi che farò quando non avrò più un’attività commerciale da mandare avanti da solo.
Mentre osservo i due ragazzi parlare tra loro chiedo:
“Vi siete conosciuti a Roma?”
Loro si guardano, lei con l’espressione curiosa di chi non ha capito, lui con una faccia imbarazzata. La risposta mi apre un mondo: si sono conosciuti on line durante i primi mesi del 2020, si sono innamorati a distanza e hanno deciso di incontrarsi. Appuntamento a Roma nel posto più dolce della città. Amir ha suggerito il mio negozio.
Guardo fuori dalla vetrina la consolare caotica, la gente si strattona. Tutti ignorano quanto sta accadendo in questi metri quadri di storia. Ora io ho il cuore che corre all’impazzata e ignoro come poterlo calmare sebbene il Natale quest’anno sia già arrivato con questo meraviglioso regalo.
Quando i ragazzi si alzano dal tavolino prendono diverse cose e le poggiano al bancone.
“Come mai parli così bene l’italiano?” Chiedo sapendo che forse, quella, è l’ultima domanda che porrò ai due.
L’uomo mi guarda con un sorriso fiero mentre abbottona il cappotto.
“Sono un tenore e ho studiato l’italiano per poter cantare l’Opera.”
Lo guardo, non credo di aver capito. Non sono mai stato un estimatore di Opera lirica.
“L’Opera è italiana. Conosci l’Opera? L’anno prossimo verrò alla Scala di Milano”.
“Non la conosco molto bene.” Ammetto con il senso di colpa.
L’uomo prende le sue cose e mi dice:
“L’Opera ha un linguaggio antico. Come questo posto. Non morirà mai.”
Sebbene il Natale, questo Natale, abbia in sé un’atmosfera tragica, avverto la magia delle cose che accadono e la follia di pensare che tutto debba sempre restare uguale, fissarsi nel futuro. Le persone, al contrario, sono fatte per andare alla scoperta e tornare indietro, se si torna, con qualcosa in più nel bagaglio. Come Amir.
E adesso io che farò?
Frugo ancora nella scatola tra le foto, ma non trovo tracce di George.
Metto a posto la scatola nel retro, la giornata è finita.
Domani farò pensieri nuovi.
Adesso, sebbene il Natale, abbasso la serranda.