
LA PALLA DI NATALE AUTRICE : GRAZIA RIGGIO

Sbadiglio, poi infilo le mani in mezzo alle gambe. La vicinanza degli altri bambini e i fiati delle persone, pigiate sulle panche della chiesa in un’unica linea di lana e piumini, non riescono a farmi passare né il sonno né il freddo. È la notte di Natale, okay, ma quanto sarebbe bello aspettare i regali al calduccio, sotto le coperte, anziché stare qui a cantare per far contento il parroco, che magari non sa neanche come mi chiamo. Mi riscuoto dal torpore non appena lo vedo entrare. Che ci fa lui qui? Sistemo la sedia esattamente dietro a Nicola un attimo prima del trillo della campana, e per tutta la durata della messa resto lì, immobile. Non perdo l’allineamento neanche quando mi devo mettere in piedi.
«Da chi ti coprivi?» Nonno mi porge la mano. Il tragitto verso casa sarà breve, ma è bello sentire il suo calore.
«Seduto in seconda fila c’era il mio maestro. È antipatico. Non lo volevo salutare e così mi sono nascosto. È sempre scorbutico, non ride mai, urla e basta. Con le altre maestre invece fa il simpatico.»
«Magari ti sfugge qualche dettaglio.»
«Che vuoi dire?»
«Mettiti il pigiama che ti racconto una favola.»
C’era una volta un ragazzo di nome Francesco. Preferiva bighellonare fra il bigliardino e i parchi pubblici anziché andare a scuola. Accettava di fare il palo per coprire i malaffari dei suoi amici, ma mai aiutava la madre che gli chiedeva aiuto per qualche commissione.
«Perché dovrei comprarlo io il pane?» le urlò un giorno dalla strada. «Tu hai molto più tempo libero di me. Un ora per cucinare e poi non hai altro da fare. Sbrigatele tu le tue faccende, così non pensi a me e mi lasci in pace.»
Mancavano pochi giorni alle vacanze di Natale. Quella mattina, tanto per cambiare, Francesco non andò a scuola. Si recò nel solito parco, frequentato più da spacciatori e da barboni che da gente in cerca di aria pura. Avanzava con gli occhi puntati sullo schermo del cellulare, fino a ché incespicò sul lembo di tessuto che spuntava da sotto una panchina. Finì disteso lungo per terra, con la guancia spiaccicata sulle foglie secche, a un centimetro dal giaciglio di un senzatetto. L’odore di formaggio ammuffito che lo investì lo fece scattare in piedi. Urlò alla massa di capelli ingarbugliati di andare a cercarsi un lavoro, che era colpa di quelli come lui se la città era sporca. Come risposta, il mendicante chiuse l’unico occhio che aveva aperto, si tirò il plaid fin sulla testa, e riprese il suo sonno.
Il giorno dopo, ben piegate sotto alla panchina, Francesco riconobbe la coperta che aveva tentato di rompergli una gamba, i cartoni erano sistemati in un lato, gli avanzi di un panino impacchettato in un sacchetto bianco. Mentre passeggiava udì degli schiamazzi e dei colpi sordi. Dei ragazzi stavano prendendo a calci un sacco di stracci. No, non era un sacco, era il barbone accovacciato su se stesso a ricevere le botte. Chi faceva jogging cambiava percorso senza muovere un dito. Francesco afferrò da terra un pezzo di legno. «Andate via di lì o ve la vedrete con me» intimò ai teppisti. Alla vista di un oggetto appuntito che spuntava da sotto la giacca, questi corsero via come inseguiti dalla polizia.
«Grazie.» Il senzatetto sollevò il berretto di lana. «Filippo. Per servirla.»
«Ma che vai blaterando? Servire a chi? Se non era per Francesco qui presente solo alle pompe funebri potevi servire» e andò via fendendo l’aria con la mano.
Il giorno dopo, con un cenno, Filippo chiese al ragazzo di avvicinarsi. «Ciao Francesco, felice di rivederti.»
«Ti ricordi il mio nome?»
«Mi hai salvato la vita.»
«Quei tipi mi hanno fatto un torto, tempo fa, così ho pensato bene di rovinargli la giornata.»
«Sarà. Come mai non sei a scuola? Non fare quella faccia umiliata: si vede benissimo che dentro lo zaino ci sono libri. E poi arrivi la mattina e sparisci prima di pranzo.»
«Ho diciassette anni, sono responsabile delle mie azioni. Tu, piuttosto, non ce l’hai una moglie, un posto dove lavarti? Puzzi da fare schifo.»
«Avevo una casa e un lavoro, una volta. Li ho persi perché non ho imparato in tempo a stare in mezzo alla gente.» Filippo ficcò la mano nella tasca strappata. Francesco sollevò l’orecchio, chiese al vecchio se per caso anche lui avesse sentito una strana musica. «Sarà stato un uccello» rispose. «A tua madre dispiace che te ne stai tutto il giorno in giro a dare retta a persone poco raccomandabili, sai?»
«Che ne sai tu di mia madre? E poi non è vero, a lei non importa nulla di me. Rompe le scatole per tutto il giorno. Dovrebbe cercarsi un lavoro, e tu con lei. Il tempo non le manca, così la smetterebbe di andare in giro sempre con gli stessi abiti, e magari ne uscirebbe qualcosa di buono anche per me.»
«Puoi farlo tu. Basta prendere servizio in una bottega, o un negozio, e avrai gli agi che hanno i tuoi amici.»
«E poi? Cosa me ne faccio dei soldi se lavorerò dalla mattina alla sera e non avrò il tempo di spenderli? I tuoi discorsi del cavolo mi hanno rotto.» Fendette l’aria con la mano e andò via.
Le vacanze erano iniziate. La mattina la città era più movimentata, ora, piena di ragazzi raggruppati a chiacchierare. Chissà poi di cosa, pensò Francesco mentre li osservava a testa bassa. Si soffiò sulle dita intirizzite. Sollevò lo sguardo per seguire la nuvola che si era formata e vide uno dei pini della villa, il più grande, luccicare di tante stelle sparse che illuminavano il giorno.
Filippo se ne stava accovacciato sotto la panchina. Aveva indosso un cappotto nuovo, si fa per dire, più pesante di quello del giorno prima. Il vecchio infilò la mano in tasca e la tirò fuori subito dopo. Teneva le dita a coppa, con sopra una palla rossa, di quelle che si appendono all’albero di Natale. Dalla palla pendeva un sonaglio che gli scendeva lungo il polso. Filippo annuiva, come se ascoltasse qualcuno, eppure gli occhi erano bassi, puntati sulla palla, e nelle vicinanze non si vedeva nessuno.
«Oggi pensavo di non vederti» disse al ragazzo, nascondendo la mano nella tasca. Nessun rigonfiamento disturbava la linearità del tessuto.
«Ti ho portato questo. È caldo.»
Filippo afferrò il termos e bevve il tè in un lungo sorso. «Ne vuoi anche tu? Forse hai già fatto colazione al bar.»
«Al bar? Magari. Mia madre ha impastato biscotti per tutta la mattina, neanche dovesse saziare una squadra di calcio. Mi ha pure svegliato con quel cavolo di tritatutto. Più cose fa meglio sta. Tutto pur di non occuparsi di me.»
«Esiste un bene anche nei gesti che diamo per scontati. A proposito. Domani è Natale, che ne dici di aiutare alla mensa dei poveri? A magiare ci sarò anch’io.»
«Ma tu devi essere impazzito. Non apparecchio la tavola a casa mia, figurati se lo faccio per degli sconosciuti. La conversazione ha presso una brutta piega.» Fendette l’aria con la mano e andò via.
A casa Francesco ebbe una brutta litigata con la madre. Dopo aver ricevuto l’ennesima sfuriata per le assenze a scuola, l’accusò di essere una madre egoista, che era stata lei a fare andare via il padre. Si ricordava che da piccolo li sentiva spesso litigare e il motivo ricorrente era che lei non metteva mai i bisogni dell’uomo davanti ai suoi. Ricordava che il padre le gridava che voleva di più e lei non voleva darglielo questo di più che cercava. Fino all’epilogo che costrinse Francesco a crescere solo per tutta l’infanzia, a odiare se stesso e il mondo intero, tutti troppo felici per capire cosa lui stesse provando.
Dormì fuori casa, quella notte, e pensò a Filippo per tutto il tempo. Come faceva lui a sopportare quel freddo e poi la mattina conversare con chi aveva dormito al caldo? Come faceva a non odiare e a non desiderare la felicità degli altri? Il tepore allontanò i pensieri taglienti che gli facevano sentire ancora più freddo. Si addormentò che il sole era già spuntato.
Lo strombazzare di un clacson lo svegliò di soprassalto. La prima cosa cui pensò fu che non poteva tornare a casa. Un borbottio al centro della pancia gli ricordò che la sera prima non aveva mangiato. La mensa dei poveri. Già, se avesse servito ai tavoli un pasto caldo sarebbe toccato anche a lui, no?
Arrivò che la tavolata era già stracolma di gente. Venne investito da un’atmosfera carica di allegria. Ebbe l’impressione di trovarsi alla festa del paese che da piccolo aveva visitato con i genitori, dove le uniche cose di cui preoccuparsi erano mangiare il prima possibile lo zucchero filato, mettersi in fila per le autoscontro e accaparrarsi il pezzo di salsiccia più succulento.
Alla mensa i commensali erano vestiti di mille colori diversi. C’era chi aveva addosso degli stracci, chi una giacca di due taglie più grandi, ed anche chi era vestito bene, elegante per un giorno di festa. Parecchie famiglie sedevano intorno alla tavola, genitori e bambini scalmanati, e tutti ridevano, tutti ringraziavano i ragazzi che passavano fra i tavoli a servire tortellini in brodo e sorrisi, anche qualche carezza, a volte, o qualche pacca sulla spalla. Sembrava che tutti si conoscessero da sempre. Filippo non c’era.
Francesco riconobbe una signora che viveva nel suo stesso palazzo, seduta a capo tavola. L’aveva sempre vista affacciata alla finestra, non si era mai accorto che sedeva su di una sedia a rotelle. Indossava una giacca rossa. All’improvviso si ricordò di aver visto quello stesso colore e quelle stesse trecce sulle ginocchia della madre, ci lavorava con i ferri fino a notte fonda. Studiò il cappello di lana che aveva fra le mani. Anche quello, insieme alla sciarpa, li aveva visti accatastati in una sacca sistemata sotto la sedia dove la madre poltriva per tutto il pomeriggio, prima che comparissero dentro al suo armadio.
Strabuzzò gli occhi: era sua madre quella appena sbucata fuori dalla cucina con in testa un cappello da cuoco fatto con la carta? Che ci faceva lì? Gli venne in mente che un giorno l’aveva rimproverata per aver visto tanti rimasugli di carta sul pavimento della sua stanza. La risata della madre lo raggiunse. Non l’aveva mai sentita ridere così di gusto, gli occhi le brillavano al punto da farla somigliare a una ragazzina alla prima uscita con le amiche. Francesco si infilò in una stanza per nascondersi da lei. Una ragazza lo prese a braccetto, gli mise sulla testa un buffo cappello da elfo fatto con del pannolenci verde e lo spedì verso una lunga fila di piatti pronti. Aveva visto una stoffa uguale a quella dei cappelli rientrando tardi a casa, una sera. La madre la teneva stesa sulle ginocchia e, con la forbice, tagliava lunghi triangoli.
Servì i piatti come facevano gli altri elfi come lui. Incrociò lo sguardo della madre e sorrise alla sua espressione sbigottita, per poi correre ad aiutarla a sollevare la carrozzina della loro vicina sullo scalino del bagno. Poi si accorse che un bambino aveva perso il pupazzo appena avuto in dono e lo rincorse per restituirglielo.
La sera Francesco e la madre tornarono a casa insieme. Distrutti dalla fatica, si sorrisero a vicenda per tutto il tragitto. A casa il ragazzo raccolse i vestiti che non metteva più e li portò al centro di accoglienza, pregò i responsabili di distribuirli a chi ne avesse bisogno. La notte, sdraiato nel suo letto, pensò a Filippo. Chissà perché non era venuto. Si ripromise di offrirgli il suo aiuto, magari poteva ospitarlo a casa fino a quando non avesse trovato un posto dove stare. La madre non avrebbe avuto niente da ridere, ne era sicuro, anzi, sarebbe stata felice di preparare i biscotti anche per lui.
Infilò il braccio sotto il cuscino per prendere sonno. La mano urtò contro qualcosa di duro. La tirò fuori mentre si sollevava a sedere. Era una palla di Natale, rossa, con un sonaglio a forma di campana che pendeva all’estremità. Dentro la campana, piegato piccolo piccolo, c’era un biglietto. Lo lesse e poi scosse la palla, che emanò un suono simile a ciò che immaginava potesse essere il canto degli angeli di cui aveva sentito parlare in chiesa durante la Prima Comunione. Poi il suono si trasformò in una voce calma e pacata. Francesco rimase tutta la notte ad ascoltarla. La mattina infilò la palla nella tasca del pigiama, che non si gonfiò. Rimise la mano in tasca e dopo qualche secondo eccola lì, rotonda e dura. La rinfilò in tasca e sparì nuovamente. Forse era quella la magia del Natale.
«Non può finire così, nonno, voglio sapere di più su quella palla. Perché sparisce? Cosa dice? E poi Francesco ha avuto quella di Filippo o ne esistono tante? E quel è la morale della favola?»
«Non lo so… pensaci su. Buonanotte» Bacia la fronte di Fabio e chiude la porta strizzandogli l’occhio.
È notte fonda, il bambino si addormenta immediatamente. Al risveglio si ricorda che è Natale e che deve correre sotto l’albero per aprire i regali. Solleva il piumone e qualcosa rotola sul pavimento. Fabio non crede ai suoi occhi. È una palla rossa con un sonaglio a forma di campana. Ci guarda dentro e ne estrae il biglietto:
Vado da chi cerca chiarezza. Sparisco se a conservarmi è chi ha il cuore aperto a ciò che osserva, suono quando chi mi scuote è pronto a mettersi a disposizione del prossimo, parlo per consigliare la giusta via da seguire. Sono un dono che Babbo Natale ha lasciato sulla terra, ho fatto per cento volte il giro del mondo e quest’anno toccherà a te, caro Fabio, custodire i miei servizi, fino al Natale dell’anno prossimo, quando la donerai a chi ne avrà bisogno.
La mamma di Fabio bussa alla porta, non è da lui dormire così tanto la mattina di Natale. Il bambino si alza di scatto, corre sotto l’albero. La palla tira dentro la tasca del pigiama… ma non importa, sa che presto riuscirà a farla sparire.