Non saprei dire qual è il Natale più lontano di cui abbia memoria. I miei ricordi confusi di bambina sono illuminati dai nastri argentati, molto in voga negli anni ottanta, tutti attorno ad uno dei primi alberi sintetici in commercio, dalla carta da regalo gialla, immancabile caratteristica del negozio di giocattoli più famoso della città, e dall’odore di miele tipico dei dolci natalizi calabresi, che avrei imparato a mangiare solo molti anni più tardi.
Quando sei bambino, l’atmosfera colorata e tintinnante del Natale è il tuo primo contatto con ciò che c’è di magico a questo mondo. Probabilmente ho creduto anch’io a Babbo Natale, ma non era quello il fulcro centrale delle mie domande, non era l’aspetto dei regali il più importante per me: amavo le luci, mi incantavo a guardarle. Potevo passare ore seduta per terra a tenere il tempo della loro intermittenza, fantasticando persa nell’alternarsi del loro cromatismo, che ancora oggi esercita su di me un fascino incontrollabile, domandandomi con quale segreto meccanismo le lampadine riuscissero a capire di quale colore tingersi e quando. Ancora oggi carico il mio nuovo albero sintetico di fili e fili di luci rigorosamente colorate, disponendole con cura in modo da illuminarle ogni angolo, incantandomi come allora.
La luce è l’antitesi di ciò che è oscuro, eppure il sentimento malinconico che accompagna ogni mio dicembre non riesce ad essere sconfitto dall’andamento ritmico dei moderni fili di variopinti led che si intrecciano sui rami sintetici nel mio soggiorno.
Una volta qualcuno mi ha detto che ogni sentimento di tristezza non nasce per caso, ma
scaturisce da qualcosa nel nostro profondo che non siamo riusciti a capire, a superare, o che con molta probabilità non conosciamo neppure, ma asintomaticamente ci ha avvelenato l’originaria spensieratezza dei tempi in cui il primo cioccolatino del calendario dell’avvento segnava l’inizio del periodo più felice e fatato dell’anno.
Iniziai ad accostare la tristezza al Natale in seconda o terza elementare, quando per la prima volta lessi “Canto di Natale” di Charles Dickens. Da quell’anno in poi lo lessi ogni domenica d’avvento per molto tempo, seduta di fronte alle mie luci, pensando alla povertà di chi non avrebbe conosciuto la gioia di scartare un pacco e trovare il giocattolo desiderato.
Quando raggiunsi l’età in cui non si scrive più la letterina a Babbo Natale, per una serie di circostanze che funestarono me e chi mi stava intorno, il mese di Dicembre iniziò a simboleggiare la fine, qualcosa di inspiegabilmente drammatico, i giorni del resoconto di un anno che fu il primo di una lunga serie di affanni, vissuti direttamente o spesso soltanto assistiti.
Questa sensazione si protrae ancora oggi, quando ricadono anniversari che magari la mia mente non associa all’istante ma il mio corpo sì, perché i muscoli hanno memoria, il cuore per primo.
Non termino mai di addobbare l’albero prima del 20 dicembre, cercando di procastinare il senso di colpa che mi crea l’arrivo di un periodo di festa del quale non riesco pienamente a gioire.
Qualche anno fa, il pomeriggio della vigilia di Natale, portai il pandoro ad una casa famiglia, il moderno orfanotrofio, del centro storico cittadino, per arrivare a sedermi a tavola a cena soddisfatta di aver compiuto una buona azione, ma fu peggio: per tutto il tempo pensai a quei bambini, ai quali la vita ha tolto più di una cena a base di pesce.
Quest’anno non so che Natale sarà. Il mese di dicembre stavolta porta con sé l’arduo peso del bilancio di un anno durissimo, singolare senza dubbio, ma difficile per tutti. Ho iniziato a scrivere di Covid durante il primo, assurdo lockdown. Se provo a contare il tempo passato, mi rendo conto che sono passati quasi dieci mesi, ma dentro questa bolla i giorni sembrano molto più corti e rapidi.
Me ne accorgo quando scendo a fare la spesa e mi costa fatica fisica e mentale uscire di casa, quando tra gli scaffali ho timore nello scegliere e toccare le confezioni di torrone, quando mi sento un inquisitore spagnolo mentre guardo male un signore in fila con la mascherina sotto il naso nonostante io stessa spesso mi senta soffocare. In dieci mesi sono cambiate le mie radicate abitudini, da quotidiana girovaga a reclusa solitaria, e al contempo è cambiata la vita intorno a me, molto più digitale, molto più essenziale negli aspetti tangibili. Se mi piaccia o meno quest’ultimo aspetto non so dirlo, ancora non sono uscita dalla mia bolla. Stavolta mi sono ritrovata a fine dicembre senza prenderne piena coscienza, ipnotizzata nel ripetitivo andamento di giornate tutte uguali, ma montando l’albero ramo per ramo, ci ho messo più amore. Ho aperto gli aghi di stoffa pensando a chi trascorrerà un Natale in solitudine, lontano da casa, dagli affetti più cari che si raggiungono soltanto nei giorni di festa, o a chi lo passerà con un posto in meno
a tavola. Ho appeso le mie mille palline con una cura particolare, attenta ad ogni dettaglio e addobbando anche la parte nascosta dell’albero, quella lato muro, perché anche ciò che si vede solo se lo vai a cercare merita la dignità della decorazione. La cura più importante però l’ho conservata per le luci.
Filo dopo filo, giro dopo giro, ho fatto sì che l’illuminazione invadesse ogni spazio possibile, illuminando di riflesso anche i miei pensieri più bui. Ho intrecciato i fili facendo attenzione a non aggrovigliarli, alternandone le intermittenze e misurandone le distanze, disponendoli uno alla volta già accesi. E poi mi sono incantata di nuovo, come quando ero bambina, per minuti e minuti ferma ipnotizzata dall’andirivieni dei colori caldi e freddi. Ho sperato per un minuto di riprovare l’ingenua meraviglia spensierata della me bambina, pregando Babbo Natale non di portare i giocattoli a tutti i bambini del mondo, ma di regalare un po’ di speranza a chi quest’anno ha perso tanto, a chi vorrebbe abbracciarsi e non può, a chi sorride agli affetti dalla bidimensione di uno schermo in remoto. Sarà un Natale di assenze per molti, di attese per altri, di benedette convenzioni per pochi.
Per questo articolo mi è stato chiesto di descrivere cosa ci portiamo di vecchio nel nostro Natale che amiamo ancora oggi: all’inizio è stato difficile pensarci, trovare una risposta a questo quesito che può sembrare semplice ma in realtà prescinde un’analisi introspettiva notevole. Dopo averci rimuginato su, posso affermare che del mio vecchio Natale porto con me, custodito nei meandri più nascosti del mio cuore, è l’effetto che da sempre mi fanno le mie luci, l’iniezione della profonda speranza che alla fine, nonostante l’oscurità, le luci riusciranno ad illuminare ogni angolo, e andrà tutto bene.
Francesca Librandi

She may have found a reason to forgive, if he had only tried to change.
(Lei avrebbe potuto trovare una ragione per perdonarlo, se lui avesse solo provato a cambiare.) da Beyond this life, Dream Theater

Ha sempre amato l’atmosfera natalizia che invade le strade subito dopo il suo compleanno.
Forse perché, dopo la festa più triste dell’anno, sente il bisogno di circondarsi di allegria, o forse perché era il periodo preferito di Marco. Non riesce a ricordare quanti pomeriggi avevano passato insieme a comprare addobbi, quanti abeti sintetici avessero riempito di ingarbugliati fili di luce.
La parte in assoluto prediletta da entrambi era la ricerca dei regali più assurdi: schiaccianoci, penne ad inchiostro di china, l’ultimo Natale regalarono alla madre di lui un distruggi documenti dei Pokemon. Consumavano i negozi a furia di entrare e uscire, spesso senza acquistare nulla, solo per il gusto di commentare gli articoli in esposizione. Da due anni ormai, nelle domeniche d’avvento, gira da sola per il centro commerciale dalle vetrine aerografate di fiocchi di neve, tra i bambini nei loro veloci carrelli a forma di slitta, ascoltando le note in filodiffusione delle compilation natalizie di Mariah Carey e Michael Bublé che conosce a memoria, quasi fosse una cerimonia di rito, il suo particolare tributo in onore di quello che era stato una volta e che non sarebbe stato mai più. Non avrebbe rinunciato al suo iter nonostante in quel freddo dicembre abbia un motivo in più per sentirsi triste: dopo l’ennesimo distacco, per il suo compleanno Alessio era tornato a farsi vivo e lei aveva ceduto alle sue ipocrite promesse ancora una volta. Tempo qualche giorno, poi tutto 192 come prima, come sempre. È stanca di corrucciarsi per lui, non ha neanche la forza per fare il solito, inutile passo indietro. Già da parecchio la loro storia è arrivata
al capolinea, ma il masochismo di chi è abituato a soffrire non le permette di prendere posizione a riguardo. Percepisce quanto sia sbagliata la sua solitudine, quando avrebbe dovuto avere il suo fidanzato accanto, al quale in mesi e mesi non è nemmeno riuscita a raccontare perché sia così importante per lei camminare le domeniche d’avvento tra quelle persone apparentemente felici, troppo impegnate col frenetico andirivieni del loro spensierato quotidiano per accorgersi della sua espressione, ogni anno un po’ più sconfitta. Si ferma in libreria, la tappa obbligatoria di ogni sua visita al centro commerciale, travolta da un’insana volontà di farsi del male.
Scorrendo tra gli scaffali, prende tra le mani l’ultimo regalo che aveva comprato per Marco, un libro di Richard Bach: Il gabbiano Jonathan Livingston. Improvvisamente ricorda di aver regalato lo stesso volumetto anche a Lorenzo. Non ci aveva pensato quando lo aveva fatto, quella prima sera in cui l’aveva riaccompagnata a casa. Prova una leggera punta di dispiacere nell’accorgersi di non avere sue notizie dalla telefonata del suo compleanno. Meglio così, per lui e per quell’arpia ossigenata della sua ragazza. Eppure riflette, a malincuore, sulla scena del loro primo e unico bacio, su quanto era stato bello e su quanto lo sarebbe stato molto di più se non ci fosse stata Ludovica, se non ci fosse stato Alessio. Se Marco morendo non avesse gettato un velo di disperazione su tutto ciò che le capitava. Se con Marco non fosse morta anche una parte di lei.
Appena uscita dalla libreria indossa le cuffie, per evitare di camminare verso casa nel silenzio rimbombante di quei soffocanti pensieri, con un regalo in meno nella borsa e un macigno in più sul cuore.
Tratto da “Attraverso i suoi occhi” di Francesca Librandi

SPECIALE NATALE 2020 – CAMBIO GIORNO-

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